L'invasione della penisola italiana da parte degli eserciti alleati nella primavera-estate 1943, iniziata con l'occupazione di Pantelleria e Lampedusa e, dopo pesanti bombardamenti su Messina, Trapani, Marsala e Palermo, con lo sbarco in Sicilia, portò al crollo del fascismo e, con esso, allo sgretolamento dell'apparato istituzionale dello Stato. In una situazione così precaria e difficile per le sorti della nazione e della monarchia, il Gran Consiglio del fascismo, supremo organo costituzionale del regime, nella drammatica notte tra il 24 e 25 luglio, prese a maggioranza la decisione di esautorare Benito Mussolini dalla direzione politica del paese e pertanto dalle funzioni di capo del governo. Inoltre, i gerarchi, con Dino Grandi in testa, invitavano il re Vittorio Emanuele III a riprendere quelle prerogative che lo Statuto albertino attribuiva alla figura del monarca in qualità di capo dello Stato e delle Forze armate. Vittorio Emanuele, da tempo pressato sia dagli ambienti militari, consapevoli della oggettiva debolezza dell'esercito e quindi della imminente sconfitta, sia dai circoli di corte perché tentasse di salvare la Corona dal disastro che l'avrebbe di sicuro travolta in considerazione delle pesanti compromissioni con il regime, decise di agire costringendo Mussolini alle dimissioni. Questo atto fu possibile anche perché, nel quadro di una pura formalità istituzionale, la votazione contraria del Gran Consiglio alla linea seguita fino a quel momento dal capo del governo, garantiva la legittimità della revoca. Proprio in forza della prerogativa regia della revoca ministeriale, il re costrinse l'uomo che per vent'anni aveva guidato la nazione alle dimissioni. Subito dopo, Mussolini venne tratto in arresto per ordine dello stesso Vittorio Emanuele. Il governo fu affidato al maresciallo Pietro Badoglio, un esponente della vecchia classe dirigente legato alla monarchia (1).
Come primo atto politico, il nuovo governo militare si affrettò a rassicurare l'alleato tedesco che nulla sarebbe cambiato, l'Italia avrebbe continuato a combattere al suo fianco. Questa posizione produsse nel paese uno stato di profonda delusione, amarezza e scompiglio. Il trapasso dalla dittatura mussoliniana al governo di Badoglio, infatti, era stato approvato dalla grande maggioranza del popolo italiano, un popolo stremato, stanco, affamato e desideroso di voltare pagina una volta per tutte con la politica repressiva e guerrafondaia del passato regime e, quanto prima, di uscire dal conflitto mondiale. Mentre gli eserciti alleati avanzavano da sud e le truppe tedesche procedevano in modo sistematico a occupare le regioni del nord, dopo quarantacinque lunghi giorni di esitazioni, il re e il capo del governo diramarono prima la notizia dell'avvenuta firma dell'armistizio con gli Alleati e poi misero in atto il trasferimento ovvero la fuga della corte e del governo a Brindisi, al fine di evitare eventuali ritorsioni tedesche.
Con l'8 settembre 1943 l'apparato dello Stato di fatto cessò di esistere e l'esercito fu lasciato senza direttive. L'8 settembre pertanto costituisce una data fondamentale e dirimente per la storia dello sviluppo politico e sociale dell'Italia contemporanea (2). A tale proposito, il dibattito storiografico è alquanto ricco di posizioni. Per alcuni storici e per Renzo De Felice in particolare, questa data deve essere considerata come «la fine della patria», nel senso che deve essere intesa come il venir meno di un comune sentire, di una comune identificazione e appartenenza (3). Secondo altri studiosi invece la data dell'armistizio deve essere vista come il momento finale di una crisi che, se da una parte, investe le vecchie classi dirigenti con il loro conservatorismo sociale e politico, dall'altra, consente l'avvio di una azione tesa alla costruzione di una nuova identità italiana, fondata sui valori repubblicani, democratici, egualitari e non più nazionalistici (4). Di sicuro a morire è stato quel concetto di patria tanto caro all'Italia monarchica e liberale poi ereditato, esaltato e, infine, screditato dal fascismo. Inoltre, la fine dello Stato, intesa perlomeno nel suo aspetto sostanziale e non formale, ha posto, come efficacemente sostenuto da Claudio Pavone, per la prima volta milioni di cittadini in una dimensione tragica, nella condizione di dover decidere in assoluta libertà, senza alcuna autorità di riferimento (5). Dopo l'8 settembre, il concetto di legalità, così strettamente connesso al sistema delle istituzioni pubbliche, non poteva più trovare i suoi presupposti nei caratteri tipici e «normali» di un ordinamento giuridico. Pertanto, in una nazione allo sbando come l'Italia di allora, emerse dapprima tra le popolazioni locali quel grande sentimento umano della solidarietà, che si tradusse, anche e soprattutto grazie al ruolo determinante delle donne, in azioni di assistenza e salvataggio, in particolare nei confronti di quei soldati abbandonati a loro stessi che, stanchi della guerra o che non intendevano continuare a combattere con la parte nazifascista, rischiavano di essere deportati nei campi di prigionia in Germania (6). In alcuni casi, il rifiuto opposto all'intimazione di resa comportò lo sterminio di interi reparti o divisioni, come nel triste ed esemplare caso della divisione Acqui a Cefalonia.
Tutti questi sentimenti solidaristici e atteggiamenti in un certo qual senso di natura prepolitica, trovarono sintesi ed espressione sia nell'attività politica, dopo il ritorno sulla scena dei partiti antifascisti, sia nella organizzazione politica e militare delle formazioni partigiane. Queste ultime, sorte nell'autunno-inverno 1943 e di ispirazione repubblicana, liberale, monarchico badogliana, democratico cristiana, socialista, azionista, comunista, ebbero nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) il loro punto di raccordo e direzione, eccezion fatta per taluni gruppi radicali, come ad esempio comunisti eterodossi, si pensi al caso di Bandiera rossa a Roma e nel Lazio bene evidenziato da Silvio Antonini nella prefazione a questo volume, o frange anarchiche e libertarie. Un così ampio ventaglio di forze aspirava a rappresentare l'unità della nazione con l'obiettivo di rifondare una nuova identità italiana. Non è un caso che le formazioni partigiane comuniste fossero intitolate a Garibaldi, come del resto la brigata che aveva combattuto anni prima sul fronte spagnolo a difesa della Repubblica contro la reazione franchista. Da parte dei protagonisti la Resistenza fu presentata sin da subito come una guerra patriottica ovvero come un secondo Risorgimento, dopo quello che portò all'Unità d'Italia, volto alla indipendenza e alla liberazione dallo straniero invasore. Tuttavia, proprio per l'eterogeneità delle forze rappresentate all'interno del Cln, la realtà era ben più complessa, soprattutto per effetto delle divisioni tra radicali e moderati su chi dovesse avere l'intera responsabilità delle operazioni militari, se le formazioni partigiane o gli Alleati. La linea attendista espressa dai moderati si sposava perfettamente con gli obiettivi degli Alleati. A tale proposito, nell'inverno 1944, allorquando il baricentro della guerra sembrava spostarsi verso la Jugoslavia, con il conseguente dirottamento degli aiuti verso le forze partigiane jugoslave a scapito di quelle italiane, il generale britannico Alexander emanò un proclama, dove, secondo alcune interpretazioni, il Comando supremo del Mediterraneo avrebbe richiesto, di fatto, la smobilitazione delle formazioni militari resistenziali. Nel testo è scritto che i partigiani «devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno» (7); inoltre, la parola d'ordine è la seguente: «stare in guardia, stare in difesa» (8). Ora, al di là delle vere intenzioni degli Alleati, la richiesta, che coincideva con uno dei momenti più duri per la Resistenza, privata in gran parte dei rifornimenti di viveri e indumenti nonché fiaccata dalla repressione nazifascista, venne presto lasciata cadere nel vuoto da parte dello stesso quartiere generale del Comando supremo del Mediterraneo dopo i rivolgimenti militari sul fronte balcanico a favore dei tedeschi, che resero impraticabile l'eventuale sbarco alleato nell'alto Adriatico. Il 22 novembre, infatti, Henry Maitland Wilson diramò il contrordine: la battaglia in Italia centrale doveva tornare prioritaria (9). Da questo momento i partigiani continuarono a combattere con rinnovato vigore.
La guerra patriottica e di liberazione è stata anche una guerra tra fascisti e antifascisti, uno scontro interno al popolo italiano che, come ha evidenziato Pavone, può attribuire alla Resistenza ulteriori declinazioni come «guerra sociale» e «guerra civile» ( 10). Se il riferimento è quello dell'internazionalismo comunista, della dottrina marxista-leninista e soprattutto del mito sovietico che tante speranze accesero negli animi di milioni di uomini e donne, ma anche in quelli degli operai italiani che già nel marzo 1943 furono protagonisti degli scioperi che colpirono i grandi centri produttivi nel nord del paese, allora ci sono tutte le condizioni per definire la guerra come sociale e, per estensione, ideologica. Da queste premesse, sostenere che in Italia ci sia stata una guerra civile il passo è breve. In effetti, sempre sulla scorta delle interpretazioni di Pavone, una guerra civile fu quella combattuta dai partigiani contro i fascisti della Repubblica sociale italiana o Repubblica di Salò, creata dopo l'8 settembre dal Reich e presieduta da Mussolini, del tutto illegittima per la sua genesi e per la mancanza di consenso popolare (11). In questa fase, all'interno dello schieramento fascista, non diversamente da quello antagonista, si assiste a una trasformazione profonda negli atteggiamenti e nel linguaggio, che diventa polemico nei confronti del vecchio apparato statale moderato, conservatore e monarchico, riappropriandosi delle parole d'ordine del programma sociale e repubblicano delle origini, soprattutto nel propagandare la socializzazione delle fabbriche e la costituzione dei consigli di gestione aperti alla partecipazione operaia. Allo stesso modo delle componenti antifasciste, gli aderenti al Partito repubblicano fascista si pongono domande sulle ragioni della sconfitta, su quale sarebbe stata la sorte dell'Italia, sulle tensioni di carattere ideologico a proposito di fascismo, nazionalsocialismo, democrazia liberale, comunismo, e ancora, sullo scontro tra totalitarismo e democrazia. Sul piano pratico, le politiche messe in campo dai fascisti repubblicani o, secondo la vulgata resistenziale, repubblichini furono tanto velleitarie quanto fallimentari. Le autorità della Repubblica di Salò non seppero a livello di pubblica sicurezza arginare le azioni criminali e le campagne di terrore attuate tanto dai tedeschi quanto dalle Brigate nere nella repressione delle attività partigiane e nei confronti di popolazioni civili inermi – come non ricordare, tra gli altri, gli eccidi di Marzabotto, di Sant'Anna di Stazzema e delle Fosse Ardeatine –. Inoltre, i fascisti contribuirono alla deportazione degli ebrei e accettarono supinamente l'annessione alla Germania del Trentino e della Venezia Giulia. Proprio in questa terra, crocevia tra il mondo occidentale e orientale, il regime fascista attuò politiche che tendevano a privare le minoranze slave della loro lingua e dei loro diritti; fu messa in atto una vera e propria persecuzione, continuata poi con particolare virulenza dopo l'occupazione italiana della Jugoslavia nelle terre confinanti con le province italiane. Tanto che le popolazioni slave furono oggetto di sistematici massacri. La risposta dei partigiani comunisti jugoslavi non si fece attendere al momento della Liberazione: le vittime italiane furono molte e i loro corpi vennero gettati nelle foibe.
Comunque, dopo il «giallo» del proclama Alexander, la Resistenza, consolidando le proprie formazioni militari e ottenendo successi di notevole rilievo, ebbe modo di sperimentare, come nel caso della Repubblica dell'Ossola, pratiche di governo democratico basate sulla condivisione e sulla partecipazione dei cittadini prima ancora della insurrezione nazionale, che, in coincidenza con l'attacco degli Alleati, fu proclamata dal Cln Alta Italia nel mese di aprile 1945 (12). I partigiani liberarono, tra le altre, città come Genova, Torino e Milano che, per la loro importanza strategico industriale e nonostante gli eserciti alleati, diedero risalto alla loro capacità di iniziativa, facendo emergere tutto il carattere morale e politico di una azione complessiva tesa alla ricostruzione, o meglio, come affermato in precedenza, alla costruzione di una nuova identità nazionale fondata sui valori democratici. Nel frattempo, nel Regno del Sud, il 18 giugno 1944 era stato formato un nuovo governo sotto la presidenza di Ivanoe Bonomi, un socialriformista peraltro già attivo nel periodo giolittiano. Emanazione diretta questa volta dei partiti rappresentati nel Cln – Partito liberale, Democrazia del lavoro, Democrazia cristiana, Partito d'azione, Partito comunista e Partito socialista di unità proletaria –, che si era attribuito il potere di designare alla Corona il governo, il ministero Bonomi sembrava quasi l'organo esecutivo di questo e non più della monarchia, ritenendosi ormai legato a essa solo formalmente attraverso la ratifica delle nomine (13).
Quello che si è delineato fin qui è lo scenario generale dove si sono svolti i fatti degli ultimi due anni della seconda guerra mondiale, che Fabrizio Astolfi riporta con mirabile sintesi divulgativa e con alcuni approfondimenti nella prima parte dei suoi Appunti per una storia della Resistenza nell'area dei monti Cimini (14). Nella seconda parte, dopo una prima ricognizione sulla guerra di liberazione nel Lazio e aver evidenziato le affinità e, soprattutto, le differenze con le esperienze resistenziali nelle regioni del nord come in quelle del sud della penisola, egli affronta la Resistenza a Corchiano e nel territorio limitrofo. Prima della liberazione di Roma, gran parte della nostra regione conobbe la durissima esperienza dell'occupazione e la ferocia della repressione antifascista e antiebraica. Accanto al fenomeno, principalmente capitolino, della Resistenza animata dai militari e dall'antifascismo storico, nel resto del territorio, scrive Astolfi, si sviluppa una resistenza civile che, «se spesso collabora con le bande organizzate, ne prescinde largamente quanto ad organizzazione e ad identità politica». Si tratta, come accennato, di episodi di resistenza passiva, di assistenza e ospitalità a combattenti, clandestini e disertori, di reazione a requisizioni, insomma di azioni tese a tutelare le popolazioni di fronte alle durezze del conflitto, che emergono soprattutto laddove ancora forte risulta la cultura contadina e paesana, come ad esempio nella Tuscia e, nella fattispecie, a Corchiano. Si deve tener conto anche del fatto che, in quel torno di tempo, la provincia viterbese presentava una situazione economica e produttiva stagnante: una agricoltura basata su antiche pratiche di conduzione e coltivazione dei fondi, perlopiù frammentati, e scarsa attività industriale a basso contenuto tecnologico, come nel caso della trasformazione agro-alimentare e della produzione ceramica, limitata nella sola zona di Civita Castellana.
Per quanto riguarda la storia del secondo conflitto mondiale, dell'antifascismo e della Resistenza a Corchiano, la Relazione sulle attività dei partigiani della zona di Corchiano, recante la data del 17 settembre 1944, che l'autore, Antonio Giustini – primo sindaco della Corchiano libera nominato nel dicembre di quello stesso anno con Decreto luogotenenziale – inviò alla Commissione alleata di controllo, rappresenta una fonte, insieme documentaria e narrativa, di capitale importanza per la ricostruzione e la comprensione dei fatti e dei momenti vissuti all'interno della piccola comunità rurale. Giustini, infatti, nella sua Relazione ricostruisce il contesto politico, sociale e militare, esponendo in particolare le operazioni partigiane condotte nel territorio da parte della banda del colonnello Giuseppe Pironti, nonché i rapporti con la Resistenza romana e con gli ambienti vaticani. Il partigiano Giustini, inoltre, incarna un esempio di Resistenza civile, come del resto tanti uomini e donne che riescono a farsi portatori di una grande solidarietà comunitaria, fornendo assistenza e nascondigli ai militari italiani e alleati. In termini generali, si può sostenere, come acutamente fa notare Astolfi alla fine del suo lavoro, che proprio in queste vicende si riassume e si concretizza il valore della Resistenza, soprattutto quando nel dopoguerra i cittadini di questo paese, memori delle terribili condizioni sofferte a causa del conflitto, diventano finalmente consapevoli che ogni loro comportamento, ogni loro azione o omissione, comporta sempre nell'ambito politico e sociale la definizione delle priorità nelle scelte e negli indirizzi. Sul piano della dimensione simbolica e valoriale, lo storico Roberto Battaglia, comandante della divisione Lunense sulle Alpi Apuane e autore dell'importante Storia della Resistenza italiana, anni fa, prima che la morte lo colse nel 1963, osservava che a distanza di anni la lotta di liberazione, sottraendosi a qualsiasi facile schema celebrativo, conservava intatta la sua carica polemica e il suo messaggio di speranze. Sì, la Resistenza conserva forte e chiaro quel messaggio, perfetta sintesi di simboli, valori e pratiche. Un messaggio di speranza e di condivisione per affermare nel tempo, attraverso l'esempio e la dottrina, i valori democratici e repubblicani così efficacemente espressi nei principi fondamentali della nostra Carta costituzionale e scaturiti dalla lotta di liberazione nazionale.
Note
(1) Sul procedimento che portò alla revoca di Mussolini e alla nomina di Badoglio a presidente del consiglio si può discutere se in realtà siano state osservate le forme costituzionali o statutarie. Ora, chi reputa il Gran Consiglio del fascismo un organo meramente consultivo, privo della capacità di assumere volontà diverse rispetto a quelle del capo del governo, è portato a considerare la vicenda del 25 luglio una sorta di colpo di Stato compiuto dalla monarchia contro il regime e il suo principale rappresentante. Chi considera invece il Gran Consiglio un organo costituzionale, come deve giustamente essere considerato a seguito delle leggi del 1928 e del 1929, deve ritenere pienamente legittimo il voto espresso dai gerarchi e, di conseguenza, la revoca del capo del governo, Mussolini, da parte del capo dello Stato, il re Vittorio Emanuele III. A tale proposito, cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale d'Italia, 1848-1948, Roma-Bari, Laterza, 1997, in particolare pp. 380-382. Sulla «costituzionalizzazione» del Gran Consiglio del fascismo, vedere Legge 9 dicembre 1928, n. 2693, e Legge 14 dicembre 1929, n. 2099. Inoltre, cfr. G. Gentile, La costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo, in «Educazione fascista», VI, 1928, pp. 86-87. Per una sintesi inerente alle due leggi, vedere ancora C. Ghisalberti, Storia costituzionale, cit., pp. 361-363.
(2) Sull'armistizio e sulle conseguenze che quell'atto produsse, vedere E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L'armistizio dell'8 settembre 1943, Bologna, Il Mulino, 1993; Ead., L'inganno reciproco: l'armistizio tra l'Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1993; numero monografico di «Storia contemporanea», XXIV, n. 6, 1993, dal titolo 1943: crisi di regime, crisi di nazione; G. E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 7-45.
(3) Cfr. in particolare R. De Felice, Rosso e nero, a cura di P. Chessa, Milano, Baldini & Castoldi, 1995; E. Galli Della Loggia, La morte della patria: la crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996.
(4) Per una visione di insieme della storiografia sulla Resistenza, cfr. Passato e presente della Resistenza. 50° anniversario della Resistenza e della guerra di liberazione, Presidenza del Consiglio dei ministri [Roma s.d.]. Si tratta di una pubblicazione che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Roma nei giorni 1 e 2 ottobre 1993.
(5) Cfr. C. Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
(6) Sul ruolo delle donne durante il conflitto, vedere A. Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991; J. B. Elshtain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991.
(7) Cfr. P. Secchia, F. Frassati, La Resistenza e gli Alleati, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 151-152.
(8) Ibidem
(9) A proposito del disgraziato «proclama Alexander», cfr. G. E. Rusconi, Resitenza, cit., pp. 81-83.
(10) C. Pavone, Una guerra civile, cit., passim.
(11)Per quanto riguarda la Repubblica sociale italiana, essenziale la lettura di un classico come quello di F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963. Di notevole interesse l'approfondimento di carattere giuridico e istituzionale in M. S. Giannini, La Repubblica Sociale Italiana rispetto allo Stato italiano, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 1951, p. 330 e sgg.
(12)Per agevolare un primo lavoro di ricostruzione del fenomeno della Resistenza e, soprattutto, della liberazione e della insurrezione, anche attraverso la lettura di volumi a metà strada tra la memoria personale e la riflessione storica, si consiglia D. L. Bianco, Venti mesi di guerra partigiana, in Guerra partigiana. Raccolta di scritti, a cura di G. Agosti e F. Venturi, Torino, Einaudi, 1954; R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Milano, Edizioni U, 1945; L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, con introduzione di C. Pavone, Bologna, Il Mulino, 1995. Da tenere in considerazione la brillante e acuta riflessione di P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Torino, Einaudi, 1995.
(13) Cfr. C. Ghisalberti, Storia costituzionale, cit., pp. 396-401.
(14) Per i contributi sulla Resistenza nel territorio regionale e provinciale, si rinvia alla bibliografia di questo volume. Come per la storia della Resistenza nazionale, anche per quella regionale e provinciale la bibliografia è davvero sterminata, pertanto, anche per non appesantire questo lavoro, si è ritenuto opportuno fare riferimento ai contributi più esaustivi tanto sul piano della ricostruzione storica quanto su quello della riflessione suscitata attorno alle più recenti interpretazioni storiografiche.